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Bar De Chiara, un libro che piace! La recensione del Dott. Giuseppe Trincucci

Foto Storica bar de Chiara

Bar de ChiaraContinuano le attestazioni di stima per Lino Montanaro e Lino Zicca, autori del libro “Bar de Chiara”.

Riceviamo e pubblichiamo con piacere la recensione del dott.  Giuseppe Trincucci.


Ho letto con grande piacere il libro di Lino Zicca e Lino Montanaro, Bar De Chiara. È un libro singolare sia nella struttura che nella sua capacità evocativa. I critici letterari americani lo liquiderebbero subito perché costruito secondo i dettami ginger bread, in forma bislacca, ma ad una lettura attenta scoprirebbero anche loro, come abbiamo scoperto noi, un lavoro con un’architettura sorprendente. D’altro canto al libro arride un successo notevole di pubblico e di attenzioni, insperati forse anche dagli stessi autori. Se infatti lo spirito rievocativo e canzonatorio viene tenuto fuori dalla lettura immediata, emerge invece un’operazione sociologica di vasto respiro. Questa sorta di Bar Sport, come quello descritto da Walter Benni, identificato da taluni impropriamente e ingiustamente come simbolo della periferia culturale e civile delle nostre città, si manifesta come il luogo di una prova di  sociologia cognitiva, appunto della sociologia dei processi culturali minimi.

Il libro si ambienta in un periodo e in un’epoca in cui basilischi e vitelloni  si beano della loro identità; un periodo in cui si accentuano le divergenze  culturali e sociali e si esprimono nuove istanze attraverso una serie di  sconvolgimenti epocali, il desiderio di sconfiggere le vecchie classi sociali  spazzate via dai venti del ‘68, il cambio della mentalità e dei costumi, il definitivo abbandono di una impostazione della società di tipo patriarcale e  sessista, con una società più permissiva e libertaria. Il libro di Zicca e di  Montanaro si colloca proprio in quell’epoca, in quel momento storico. Il  discorso alla gallina, la beffa alle suore, la fuitina dei due attempati  fidanzati, le interminabili partite di biliardo, la falsa schedina, lo scherzo  del semifreddo, la deamicisiana storia dell’ombelico marchio dell’impotenza e della incapacità sessuale, l’occupazione della scuola e le paesane nove  settimane e mezzo della scuola sono gli elementi di una storia fatta di splendidi amarcord. Vorrei ricordare un articolo di tanti anni fa (anni ‘50), un “calendarietto”,  di Giovanni Ansaldo, un maestro del giornalismo italiano, pubblicato su Il  Mattino di Napoli, di cui era direttore.

Foto Storica bar de Chiara
Nei suoi mitici incisivi articoli di  costume faceva un resoconto di un suo viaggio a Lucera (fu in amicizia e  corrispondenza con Giambattista Gifuni) e tra le cose note e celebrate della  città rimase colpito da una scritta “Bar De Chiara – allievo di Van Bol e  Feste”. Come poteva sfuggire a un genovese napolitanizzato quella scritta che  vedeva forse ogni giorno su un’insegna sfavillante al Rettifilo; come non  essere meravigliato che anche alla periferia dell’impero si respirasse l’ atmosfera olandese e napoletana dell’antica pasticceria, fin dalle sue origini  (la pasticceria era nata nel 1890 e fu fino al 1988 presente in Piazza della  Borsa a Napoli; ora lo stesso brand con lo stesso nome è rinato anche a Milano  nella zona di piazza Castello). Si continuava a Lucera per An saldo quella atmosfera di rispetto e di ricordo per gli antichi maestri,  quelli di cui tutti abbiamo ancora bisogno in ogni arte e in ogni professione.  Devo anche ricordare che don Salvatore, figlio o nipote del vero allievo di  Van Bol, si piccava di essere tra i pochi a conoscere alcune ricette che il  vecchio maestro olandese non volle mai rivelare nemmeno al suo amico-nemico Caflish quando nel 1932 si tentò la fusione dei due brand storici di Napoli. Il Bar De Chiara era quindi un’istituzione per Lucera e come tante  istituzioni è scomparsa, spazzata via da questo vento malsano di questi anni  terribili in cui stiamo vivendo. Tornando alla nostra storia ci accorgiamo che gli stessi personaggi del  racconto sono parte del nostro vissuto, composto di riti e di abitudini, come  quello delle paste della domenica ordinate di buon mattino e ritirate nella  tarda mattinata, uscendo ad esempio dalla affollatissima messa in Cattedrale  delle 12,15, con le paste già divise in tanti piccole guantiere, chiuse in una carta bianca e lucida, con la mitica zuppa inglese, le cassate squisitissime, e  tante altre prelibatezze. Ora di due cose dobbiamo essere grati a Lino Zicca e a Lino Montanaro. La prima che questa operazione di recupero della storia minore della città è stata  felice e appropriata.

Oggi più che mai Lucera, al di là dei suoi detrattori e dei disfattisti, ha bisogno di conoscere e valorizzare il suo ventre petaloso, quello che ha dato lustro ed onore al suo passato, alla sua storia antica, non solo con esempi illustri e celebrati, ma anche con la laboriosità dei suoi abitanti, con la sua cultura, con la testimonianza di un lavoro diuturno, silenzioso, senza medaglie. E questo patrimonio, questo impegno, nessuno ha il diritto di togliere alla città, trasferendo ad altri magari le sue insoddisfazioni e le sue delusioni e cercando di renderle universali. L’operazione di Zicca e Montanaro merita per questo motivo rispetto e  ammirazione. Questo lavoro sta a significare che le strade della vita non sono  quelle che sempre si vorrebbero percorrere, succede che come scrivevano  Fruttero e Lucentini che “la vita ci costringa talora a ritrattare”, ma quel legame, quelle radici, quell’amore filiale con la terra di origine vanno sempre  mantenuti e conservati. Peraltro lavorando nel nostro inconscio la parola terra  ha un’etimologia e significato comune a madre, come il padre ha attinenza con  il tempo.

I nostri autori oltre al racconto di storie vere o semivere, serie o  semiserie, hanno effettuato un’operazione di vasto respiro. Montanaro ha  recuperato una larga fetta del dialetto lucerino parlato ormai da pochi, per le  contaminazioni e per il disinteresse alla conservazione delle antiche  tradizioni e continua con successo la sua attività sui social. Anche la poesia di Lilino Tedeschi, scritta con schiettezza e con trascrizione perfetta e comprensibile e dedicata a questo mitico bar lucerino, contribuisce a dare valore e dignità poetica al nostro dialetto. Peraltro  Lilino ha già dato prova della sua sensibilità e della sua capacità poetica in  sue raccolte di bella forma. Dobbiamo anche gli autori nell’averci ricordato una stagione felice per la città durante la quale si avvertiva la necessità di una formazione culturale, mentale, e anche politica. Formazione che avveniva in primi luoghi di aggregazione come il Bar De Chiara e poi continuava nelle sedi dei partiti,  nelle parrocchie, nelle aule diocesane, giocando con malfermi biliardini o  improvvisando cineforum e incontri formativi. Quel mondo è solo da guardare con  nostalgia o pure con speranza? ma di ciò un’altra volta.  Nunc est bibendum. Bisogna solo far festa a due amici che spero ci  sorprenderanno ancora in futuro con scritti e riflessioni.

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