TRADIZIONI: NATALE C’U MUSSE ÚNDE, DOPPE NATALE FACÍME I CUNDE.
(Natale con il muso sporco, dopo Natale facciamo i conti)
Dopo la “fanoja” della Vigilia di Natale, preso con una paletta l’ultimo “tezzone” ancora acceso per la “devezzióne d’u fúche”, la festa si trasferiva nelle case di Lucera, e durante i preparativi per la cena della vigilia e il pranzo di Natale, fino a poco tempo fa, esplodeva una frenetica attività culinaria che affondava le sue radici nella tradizione gastronomica locale.
La vigilia di Natale
Per rispetto e sentita devozione, era giorno di digiuno e di astinenza dal mangiare carne; obblighi e divieti che duravano fino alle ore 18,00, quando terminava la giornata lavorativa.
In attesa della cena, quasi come antipasto, si gustavano i pizzefritte (le frittelle di pasta fritte nell’olio), vuote e riempite di ricotta o pomodoro.
La sera della vigilia, che per i nostri padri era considerata festa, forse più di Natale, tutta la famiglia si riuniva per la cena, ricca di particolari portate, tutto rigorosamente di magro.
Per chi se lo poteva permettere, sulla tavola non mancavano: lenguíne ssciuulènde ssciuulènde c’a ‘nguille o c’u capetóne o ch’i sarde (linguine scivolanti nel sugo di anguille o capitoni o sarde), lenguíne c’u baccalà (linguine al sugo di baccalà), ‘nguille arrestúte o fritte (anguilla arrostita o fritta), baccalà a pastèlle(baccalà fritto con un impasto di farina e uova), baccalà lèsse (baccalà lesso condito con olio, aglio e prezzemolo), sarache (aringa secca e salata), vrucchele níreve stufate (contorno di cavoli conditi con olio d’oliva), vrucchele de rape (contorno di broccoli di rape conditi con olio d’oliva), rape rossce s’ott’acíte (rape rosse sotto aceto), pepavele s’ott’acíte(peperoni carnosi sotto aceto), vulíve néreve (olive nere), ‘a nzalate d’arance (insalata di arance). Infine, non mancava mai, ‘a nzalate de renforze (cavoli bianchi, baccalà sfilacciato, olive nere, peperoni e rape rosse). La cena si completava con dolci (i crústule, i cavezungìlle, i mustaccjúle, i pupurate, i fíche sécche e cresommele p’i ménele e ‘a ciuculate), frutta secca e di stagione. Dopo cena tutti alla Messa di Natale.
Natale
Il pranzo, necessariamente più leggero, aveva come menù: mambrìcule o tagliuline cútte nd’o brode de gallúcce o vícce (semola battuta o tagliolini, fatti in casa, e cotti nel brodo di cappone o tacchino), resckarole a brode fatte ch’i pallucce(scarola lessa e insaporita nel brodo fatto con polpettine di carne macinata), tijèlle de patane o fúrne che l’agnílle (tegame di patate al forno con l’agnello), il minestrone di finocchietti ed altre verdure. Poi insalate varie, dolci e frutta. La sera mentre si gioca “ ‘a tombole “, si sgranocchiavano i scavadatìlle (taralli).
A fine pranzo c’era il rito della “letterina di Natale”, che la mamma metteva sotto il piatto del papà, il quale si mostrava sempre stupito della circostanza. Una letterina che i bambini scrivevano a scuola, piena di promesse di buon comportamento per l’anno successivo. Dopo la lettura della stessa e la recita della poesia, cui seguivano immancabili apprezzamenti, i piccoli scrittori ricevevano ’a mbèrte (la regalia), cioè qualche soldino dai genitori, dai nonni e dagli altri parenti.
Santo Stefano
Il 26 dicembre, giorno ancora di festa, poiché le libagioni dei giorni precedenti erano state abbondanti, il pranzo prevedeva pietanze leggere, a base di brodo e di pesce, ma in tante famiglie non mancavano i trucchjúle con il sugo. Poiché era arricchito dagli avanzi dei giorni precedenti, il pranzo diventava, anch’esso, abbondante e ricco.
Poi tutte le sere fino alla notte dell’ultimo dell’anno si giocava“ ‘a tombole “, mangiando “i sovratavele”, cioè núce, nucèlle, spassatímbe, cicere abbrustulute, castagne, i dolci e simili, nonché ancora i scavadatìlle .
L’ultimo dell’anno
La sera di San Silvestro, si ballava e si organizzava il gran cenone, fatto di pietanze nuove mai mangiate e anche di cibi e frutta che dovevano portare fortuna come i miccúle(le lenticchie) l’úve (l’uva), i mennèle (le mandorle) e , immancabile, u capetóne (l’esemplare femmina dell’anguilla), cucinato in vari modi, “indorato e fritto”, “alla brace o arrosto”, “ con il sughetto di pomodoro “.