Adesso si chiama operatore ecologico, ma è tutt’altra cosa. Lo vedevi arrivare con la sua divisa e berretto grigi, col carretto spinto a mano e la scopa a esso attaccata. Annunciava il suo arrivo con un fischietto e il grido “ munnezze! “ o da un prolungato suono del campanello delle case che lo avevano. Allora le donne gli portavano i secchi della spazzatura che egli riversava nei bidoni del carrettino.
Il secchio della spazzatura veniva riportato in casa, lo si lavava, lo si foderava di carta e veniva riposto sotto il lavello della cucina.
L’abitato di Lucera era diviso in zone assegnate a ogni netturbino che si occupava della raccolta dell’immondizia casalinga e della spazzatura delle strade e piazzette di competenza.
In realtà la spazzatura non è che ce fosse molta. Molta veniva “riciclate“, per cui ben poca cosa veniva buttata nel secchio, formata prevalentemente da materiale organico che non era stato dato in pasto agli animali di casa. Plastica e lattine non c’erano ancora e le bottiglie di vetro di birra o di gassosa venivano messe da parte perché sarebbero state utili “ p’a salze “ che tutti facevano in estate. I pochi giornali esistenti venivano utilizzati per accendere il fuoco delle stufe a legna o per avvolgere manufatti da mettere da parte.
I carrettini, a fine mattinata e a fine serata giungevano al punto di raccolta dove il camion della nettezza urbana raccoglieva tutti rifiuti della città per portarli alla discarica.
Per chi se lo poteva permettere, a Natale e a Pasqua, era un dovere dare la mancia al netturbino.
Era un lavoro utile e onesto e nei nostri ricordi “u scopastrade “ scivola via, come il suo carrettino che, piano piano, scompare all’orizzonte.