In un’atmosfera intensa e ricca di spiritualità, la sera del Giovedì Santo a Lucera, con le strade gremite di fedeli, era tradizione, subito dopo la funzione dell’ultima cena, quando le campane venivano legate, “ jì a fà i Sebbùleche “ (alterazione del termine Sepolcro). In tale occasione gli altari delle chiese venivano addobbati in modo solenne, ornati di luci, fiori, drappeggi, di candele accese, pronti per ricevere la visita dei fedeli.
Nella liturgia della Chiesa, quella che era diventata una tradizione quasi folcloristica, era l´Esposizione Eucaristica, con le ostie in precedenza consacrate. Il rituale prevedeva che ogni fedele visitasse le chiese che preferiva, senza un ordine prefissato, purché fossero dispari: tre, cinque (quante sono le piaghe di Cristo), sette (quanti sono i dolori della Madonna).
Per consentire alla popolazione quest’ atto di devozione, le Chiese restavano aperte tutta la notte. Era consuetudine recitare questa preghiera:
“Te salute Sebbùleche Sande, chíjne de grazzeje e dèggne d’amore, ndèrre stàje quarandòtt’óre, cúme Óme e Redentóre, cúme fígghje de Mareje, che tutt’u córe Te diche ‘a vèmmaríje.”
(Ti saluto Sepolcro Santo, pieno di grazia e degno d’amore, per terra rimani quarantotto ore, come Uomo e Redentore, come figlio di Maria, con tutto il cuore Ti dico l’Ave Maria)
Questa tradizione vedeva un’ampia partecipazione popolare e in particolare di giovani perché andare “a fà i Sebbùleche “ era un’occasione buona per seguire le ragazze, che nella circostanza godevano di una
inaspettata libertà serale.
Nel linguaggio popolare è rimasta l’espressione “Jì vesetànne ‘i sebbùleche” con il significato di andare a fare, quasi costretti, un giro di visite di cortesia ai propri parenti, o fare il giro delle cantine che i bevitori incalliti solevano visitare.