“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.
A Lucera una volta non ci si poteva mica sposare tutti i giorni della settimana, perché:
– “U LUNEDÌ SE SPUSAVÈNE QUÌLLE CHE S’ÈRENE FUJÉTE; U MARTEDÌ E U VENNERDÌ … NESSCIÚNE … PURTÁVE SFERTÚNE; U MERCULEDÌ … ’I VÍDEVE; U GGIUVEDÌ E U SABBÁTE…TUTTE-QUÁNDE L’AVÈTE”
A Lucera le reazioni dei cittadini quando una qualsiasi amministrazione comunale realizza una nuova opera sono :
– “CHEGHÈ STA CÓSE? SÒ SSOLDE JETTÁTE! NZERVE A NÍNDE! QUÁNNE VÓLE DURÀ? QUÌLLE QUÁTTE VASTÁSE SFASCIARÁNNE TUTTE CCÓSE! PENZASSERE A FFÀ ‘I STRÁDE!”
A Lucera non diciamo:
– “SEDANO MA ACCE; CAROTE MA PASTUNÁCHE; ARANCE MA PORTUUÁLLE; BASILICO MA VASENECOLE; ALBICOCCHE MA CRESOMMELE; ZUCCHINE MA CHECUZZÌLLE; MELOGRANI MA GRANÁTE; ANGURIA MA MELÓNE A ACQUE; ALLORO MA LAURE; PEPERONI MA PEPARÚLE;CARCIOFI MA SCARCIOFELE; ZUCCA MA CHECOZZE LENTICCHIA MA MÍCCULE”. • A Lucera per indicare gli alunni delle varie scuole, si diceva: SCUOLA MEDIA = I ZUCAGNOSTRE; SCUOLA PROFESSIONALE (AVVIAMENTO) = I CCIACCAFÍRRE; LICEO CLASSICO ( LO SCIENTIFICO NON ESISTEVA) = I SGUBBÙNE; MAGISTRALE = I MAJÉSTRE; RAGIONERIA = QUILLE CHE DÉVENE I NNUMERE – I RAGGIUNÍR
REGOLE DI PRONUNCIA
Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.
1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).
2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).
3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).
4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.
5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).
6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).
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