“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.
Nella società moderna ormai, specialmente tra i giovani, ci si è abituati ad usare parole nuove e, contemporaneamente, c’è un lento declino dell’uso del dialetto, soprattutto nell’uso di parole che sono diventate obsolete e desuete estranee al nostro lessico quotidiano perlopiù figlie di un dialetto che oggi si fa sempre più fatica a tramandare. Ecco alcuni esempi:
• DAZZÍRE = Era il termine usato per indicare gli agenti delle tasse
• NIGREFÚME = Era il termine usato per indicare la miscela usata per tingere le scarpe
• SSCIALDENÒ = Era il termine usato per indicare una persona che, come era vestita, suscitava riso, derisione, scherno
• VÈRDE SICCHE = Era il termine usato per indicare una malattia infettiva che attacca le coltivazioni di grano nella parte bassa
• BBUCCOLOTTE = Era il termine usato per indicare la ciocca di capelli arricciata a forma di spirale con cui si usava pettinare soprattutto i bambini
• PUPATÈLLE = Era il termine usato per indicare una sorta di succhiotto fatto in casa con un fazzoletto ed un pò di zucchero che poi si legava e rimaneva una parte tonda come fosse la testa di una bambola
• MULLECCHIJÀ = Era il termine usato per indicare che stava piovendo leggermente, a gocce sottili e poco fitte
• ALLARDATE= Era il termine usato per indicare una persona dall’aspetto florido, pasciuta
• ÓME MÚRTE = Era il termine usato per indicare il fantoccio (spaventapasseri) che si metteva in mezzo ai campi per spaventare gli uccelli e tenerli lontani dalle sementi o, anche, l’appendiabiti
• JUSSCKAMÍNDE = Era il termine usato per indicare il dolore pulsante, associato anche a prurito e bruciore, prodotto da una sostanza, da un farmaco astringente, utilizzato per curare una ferita
REGOLE DI PRONUNCIA
Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.
1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).
2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).
3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).
4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.
5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).
6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).
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