“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.
DIALETTANDO 202
A Lucera non si dice “Stanno sempre a litigare perché non sono disposti a capire le ragioni e le esigenze dell’altro” ma si dice
– “FÁNNE SÈMBE A TTÁCCIA A TTÁCCE “
A Lucera non si dice “ Fai certe cose con tanta cattiveria“ ma si dice
– “NN’U SÁCCE CÚME TE FÁCE L’ÀNEME”
A Lucera non si dice “Ha fatto una brutta fine” ma si dice
– “QUILLE À FÁTTE MÁLA FARÍNE ”
A Lucera non si dice “Augurare il male agli altri non ci protegge dal male che potrebbe colpirci ” ma si dice
– “I SENDÈNZE SÒ DE CANÍGGHJE, CHI I MÉNE I PIGGHJE “
A Lucera non si dice ” Con poca terra di proprietà, si considerava un latifondista” ma si dice
– “QUÁTTE VEGNÁLE E TE CHIAMAVENE PATRUNÁLE”
A Lucera non si dice “Certe azioni sono inutili, quando non ci si vuole rendere conto della reale situazione, “ ma si dice
– “PEGGHJÀ U PÈSSCE C’U PANARÁZZE”
A Lucera non si dice “Ognuno raccoglierà ciò che ha seminato” ma si dice
– “DUNGHE E PPARADUNGHE, CHIANDÁME I FÁFE E ÈSSCENE LI VÚNGHELE”
A Lucera non si dice “Una pioggia eccessiva nel mese di maggio porta ad un pessimo raccolto di grano” ma si dice
– “MÁGGE URTULÁNE, TÁNDA PAGGHJE E POCHE GRÁNE”
A Lucera non si dice “Andare a raccontare in giro con cattiveria i fatti di un altro “ ma si dice
– “QUÈLLE MÈTTE SÈMBE QUÀTT’ÓVE DÌND’U’ PIÁTTE”
A Lucera non si dice “Ora, di un niente non farne una cosa grande “ ma si dice
– “MÒ NN’ÈSAGGERÁNNE, CHE T’ÀNNE AMMACCÁTE U PÍLE?”
REGOLE DI PRONUNCIA
Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.
1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).
2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).
3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).
4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.
5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).
6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).
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