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24 Novembre 2024
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Dialettando – “A Lucera si dice 39”, parole lucerine che non possono venir tradotte in alcuna altra lingua

duomo cattedrale di lucera
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Lino Montanaro“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.

Il dialetto lucerino ha alcuni suoi peculiari modi di dire che, spesso, non possono venir tradotti in alcuna altra lingua.

Ecco alcuni esempi:
• A Lucera per indicare un ragazzino inesperto e immaturo che si dà arie da adulto, si dice “Chjarfusílle “ ;
• A Lucera quando si vuole esprimere stupore, ammirazione, collera, si dice “A láscka túje! “ ;
• A Lucera per indicare una persona che è famosa per il suo comportamento litigioso e provocatorio, si dice “ L’ape cegghjarúle “ ;
• A Lucera per indicare una persona zotica, ignorante, dai modi dai modi grossolani, si dice “ Zacquaróne “ ;
• A Lucera per indicare una persona esageratamente grassa, simile ad una grossa vescica, si dice “ Vescecóne “ ;
• A Lucera per indicare una persona incurvata, malridotta, si dice “ Stengenáte “ ;
• A Lucera per indicare per indicare il cibo dal sapore penetrante, pungente al gusto, si dice “ Àreghe “ ;
• A Lucera quando qualcosa che si mangia ha il sapore di cibo andato a male, si dice “ Sápe de grangete “ ;
• A Lucera quando un cibo è mangiato così spesso o in così grandi quantità che si sente lo stomaco ribellarsi, si dice “ Fáce stummacà “

REGOLE DI PRONUNCIA

Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.

1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).

2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).

3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).

4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.

5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).

6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).

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